giovedì, Settembre 19, 2024 Anno XXI


Nell’era dei videofonini, di internet superveloce, di tutte le diavolerie possibili e immaginabili Marco era rimasto affezionato alla sua radiolina. Una di quelle piccole, a transistor come si chiamavano una volta. La sua era una vecchia Grundig. Un piccolo cimelio dal quale non si separava mai. Era stata la radiolina di suo padre, che la teneva incollata all’orecchio durante la partita per sentirci tutto il calcio minuto per minuto. E dal padre lui l’aveva ereditata come aveva ereditato il posto nei distinti sud. Ricordava ancora quella specie di cerimonia improvvisata quando suo padre, ormai avanti negli anni, gli aveva consegnato la piccola radiolina raccomandandogli di tenerla da conto, ma di non metterla in un cassetto. Suo malgrado, il piccolo prodigio della tecnologia tedesca era diventato una reliquia romanista. Protagonista, nel bene e nel male, di tante partite viste con gli occhi concentrati sul campo con un orecchio alla radiolina per avere notizie dagli altri campi. Nell’epoca moderna del calcio spezzatino quella radio era diventata un oggetto quasi inutile eppure Marco la teneva in efficienza e se la portava ancora appresso. Diceva che senza radiolina non era lo stesso. Fu così che Marco si presentò all’ingresso della distinti sud. Le mani in alto, pronte per la perquisizione, la maglia della Roma, la n. 9 di Roberto Pruzzo, anch’essa a suo modo un cimelio, in una mano l’abbonamento e il documento, nell’altra l’immancabile radiolina. Il resto dell’occorrente lo teneva in un capiente e orribile marsupio di pelle che la moglie gli aveva regalato quando i borselli erano passati di moda e che, se possibile, accentuava la “panzetta” che Marco aveva messo su con l’andare degli anni.
Raggiunto il suo posto, che con tutti i soldi spesi nel corso dei decenni dalla sua famiglia per rinnovare l’abbonamento era ormai “suo” in molti sensi, Marco si dilungò nei suoi riti abituali e, fra questi, quello di sintonizzare la radiolina. Attorno a lui lo Stadio si riempiva più di quanto fosse previsto alla vigilia. Certo non c’era il pienone di quando lui era ragazzo, di quando l’ultima di campionato in casa era sinonimo di invasione di campo tollerata, ma a lui andava bene così. L’importante era che lui ci fosse. Che facesse il suo dovere di tifoso. Lo Stadio, si vedeva anche dal suo posto, si stava popolando di bambini e di bambine. Molti di loro, Marco ne era sicuro, erano al loro battesimo romanista. E questo fatto lo consolò e lo commosse. I suoi di lupacchiotti erano certamente allo Stadio, ma non accanto a lui. Erano grandi ormai, e avevano i loro giri. Ma anche per loro l’importante era che ci fossero. Luca, il più grande, ormai prossimo alla maggiore età, gli aveva accennato una sola volta al fatto che lui voleva ereditare il posto del nonno e anche la sua radiolina… il più tardi possibile, s’intende. E Marco gli aveva risposto con uno scongiuro che nascondeva, col suo solito fare burbero, il suo orgoglio. Quando la partita iniziò Marco accese la radiolina e si concentrò sul campo. Le notizie che venivano da Milano non erano buone: l’Inter attaccava costantemente e il Siena era sul punto di mollare. Il gol dell’Inter fu solo la conferma dei suoi presagi e Marco si tenne la notizia per sé. Non voleva passare per un cattivo messaggero. Ci pensò lo schermo dello Stadio ad ammutolire i presenti. A risollevare l’umore dello Stadio non bastò neppure il vantaggio della Roma. Era quello che i nostri dovevano fare, ma poteva non bastare. Ma la sua radiolina, la sua compagna fedele non lo tradì neppure stavolta. La notizia che tutti speravano fu gracchiata dal piccolo oggetto e a Marco sembrò un dolce sussurro d’amore. Il Siena aveva pareggiato. Marco si alzò in piedi come se la Roma avesse segnato di nuovo e tutto un settore lo imitò, seguito poi da tutto lo Stadio. Con la stessa esultanza di un gol: un gol a cinquecento chilometri di distanza. Marco aveva tutti gli occhi addosso, tutti ora volevano sapere, pendevano dalle sue labbra. Il nuovo vantaggio dell’Inter fu comunicato da Marco scuotendo la testa. Il sogno, inesorabilmente, stava sfumando. Passò l’intervallo e poi tutto accadde come in un sogno. Il secondo pareggio del Siena ad opera di Kharja fu comunicato ai presenti da Marco sibilando il nome del piccolo franco-marocchino che, a quanto pare, era stato di parola. Fu un delirio accanto a lui reso ancora più dolce, di lì a poco, dallo splendido gol di Daniele De Rossi. Per Marco fu un balzo indietro negli anni, al secondo scudetto. Quello che lui, senza nulla togliere al terzo, amava di più. La radiolina, allora, era nelle robuste mani di suo padre e lui allora pendeva dalle sue notizie come ora i suoi vicini facevano con lui. Fu con questo stato d’animo che Marco comunicò ai suoi vicini che all’Inter era stato assegnato l’ennesimo rigore dubbio della stagione. Per due, forse tre, lunghissimi minuti lo Stadio intero restò col fiato sospeso e quel “parato” urlato da Marco accompagnando l’urlo strozzato con l’eloquente gesto dell’ombrello fu salutato dallo Stadio intero con un boato. Lui restò inchiodato al suo posto mentre i suoi vicini reagivano ognuno alla sua maniera. C’era chi ballava, chi piangeva, chi si ripeteva come un automa “non ci posso credere”. Nel frattempo la Roma si stava inutilmente complicando la partita, concedendo anche all’Atalanta di accorciare le distanze, ma Marco restava fermo ed incrollabile. Erano arrivati fino a lì e nulla poteva accadere. Il triplice fischio finale fu accolto da tutti come una liberazione. Non c’era altro da fare che salutare la squadra, dandole appuntamento alla finale di Coppa Italia, ma nessuno se ne voleva andare. Certo c’era il giro di campo della squadra. Ma non era per quello che la gente restava ferma al suo posto. Voleva gustarsi la magia di un attimo che ti cambia una stagione. Che trasforma la rassegnazione in speranza. Voleva sentire dalla sua radiolina che anche a Milano era finita e che si doveva soffrire, si “poteva” soffrire ancora come solo per la Roma si può soffrire. L’elettricità nell’aria era contagiosa. I suoi vicini si davano pacche sulle spalle e si abbracciavano e pian piano l’onda raggiunse anche Marco. Uno dei suoi abituali compagni di avventura gli chiese come intendesse vivere l’ultima giornata. Già si parlava di maxi schermi e di adunate oceaniche nelle case davanti alla televisione, magari dividendo la spesa del digitale terrestre, o in qualche pub. La domanda fu fatta anche a Marco che in un attimo disse la sua. “Ma quale maxischermo, ma quale digitale terrestre, ma quale pub, io – disse Marco tenendo tra le mani come un oggetto di culto la radiolina – mi fido solo di questa. Lascerò che sia lei, come altre mille volte, a guidare le mie emozioni. Lei sa come fare, ha gioito e ha sofferto con me mille volte e comunque vada saprà trovare le parole giuste”.
Marco si aspettava che a quelle parole i suoi vicini lo prendessero in giro o lo trattassero come un pazzo. E invece tutti restarono qualche istante a contemplare la piccola radio. Simbolo e segno di un calcio antico che non voleva passare la mano.

Amo la radio perché arriva dalla gente
entra nelle case
e ci parla direttamente
e se una radio è libera
ma libera veramente
mi piace ancor di più
perché libera la mente