domenica, Settembre 22, 2024 Anno XXI


Le esequie del Cav. Franco Sensi, del Presidente dell’AS Roma, non potevano essere “semplicemente” l’ultimo saluto ad un uomo che è entrato a pieno diritto nella Storia della città che è la Capitale d’Italia. Non potevano essere “solo” un fatto privato per la famiglia, per gli amici, per coloro che direttamente lo hanno conosciuto ed apprezzato.
Sono diventate un fatto pubblico che ha coinvolto migliaia di persone che vi hanno assistito commosse e partecipi e anche, come recentemente accade al solo pronunciare la parola “Roma”, l’occasione per rovesciare sulla città e sulla tifoseria romanista un diluvio di insulti a poco prezzo e di sicuro consenso.
A prestare il destro è stata stavolta l’intemperanza di un gruppo di persone che al passaggio del Signor Galliani, che pure qualcosina di suo nel rapporto col Presidente dovrebbe averlo sulla coscienza, si sono  sentite in diritto, o forse in dovere, di rovesciare sul predetto una breve (per necessità di cose) sequenza di insulti e di lanciargli alcune bottigliette di plastica d’acqua minerale col loro innocente contenuto imperlandogli in vestito d’acqua d’immediata (vista la calura) evaporazione.
Non voglio ridimensionare l’episodio, a mio avviso esecrabile, né togliergli  valore.
Un funerale, anche laddove vi si assista in piazza e non in chiesa, è un momento sacro a prescindere e quindi istintivamente votato al silenzio ed al raccoglimento, tanto che anche la moda dell’applauso al feretro, per quanto utile a comunicare la commozione e a scaricare la tensione e seppure inspiegabilmente incoraggiata anche dagli officianti, mi pare a suo modo blasfema.
Detto questo vorrei soffermarmi sull’assoluta sproporzione della reazione. Su quella sorta di “eccesso di cause di giustificazione” che affligge i mass media ogni qual volta che a Roma accade qualcosa di men che perfetto e anche quando la città rasenta la perfezione, che tanto a cercar bene il pelo nell’uovo si trova sempre.
Come ha ben stigmatizzato Fila60, quelle intemperanze sono assurte a summa e descrizione dell’evento mettendo inspiegabilmente in secondo piano l’amorosa follia di migliaia di persone rimaste composte per ore sotto il sole cocente d’agosto per omaggiare il “loro” Presidente che non è più.
Il sospetto che tutta questa indignazione sia falsa e prezzolata è generato dal confronto col resto della vita pubblica italiota.
L’altro ieri un Ministro (non romano)  s’è mostrato al Mondo intero col medio teso (che nella simbologia universale equivale ad un “vaffanculo”) verso il tricolore e l’inno nazionale sul quale ha giurato insultando Roma e i romani, ieri un altro Ministro (anch’egli non romano) s’è così descritto: «io, povero, non bello e non ricco, ho fatto il culo al mondo», che se non lo si accetta come il “son bello, bullo e ballo bene e chi è più bello di me si trucca” d’infantile memoria suona pur sempre come un insulto anch’esso rivolto ai romani che, per dogma padano, sono i “fannulloni” d’Itaglia per definizione e quindi il primo obiettivo del “povero” Ministro.
Ogni giorno una parte d’Italia insulta Roma e i romani e nessuno si sogna di censurarne l’atteggiamento. Neppure il Sindaco  della Capitale. Anzi, questi insulti sono accolti dai non romani con benevolo compiacimento, con un continuo ammiccamento e certo non suscitano (se non sporadicamente) un’indignazione pari al succitato pro-memoria a Galliani sui suoi trascorsi non proprio idilliaci con la Capitale.
Specularmente, ai romani viene chiesto costantemente di lasciar perdere, di non reagire, di porgere evangelicamente “l’altra guancia” dimenticando che l’invito era limitato alla seconda guancia, segno che al terzo schiaffo una qualche reazione sarebbe pur legittima anche perché, come dicono i padani, “bon xe bon, trebon xe cojon”.
Lo stesso accade, per proiezione, ai romanisti che di Roma hanno l’ardire di vantarsi e di inneggiare ai colori  in ogni parte e in ogni luogo.
La Curva Sud costantemente descritta come il coacervo dei mali del Mondo, la novella Geenna, dimenticando i conigli volanti napoletani, i precipitanti motorini milanesi o gli affettuosi assalti interisti agli asili parmensi. Nessuno che rammenti gli insulti ai dirigenti romanisti nelle tribune d’onore degli Stadi di mezza Italia o le intimidazioni ai calciatori romanisti nell’ultima di campionato a Catania.
Questa continua asimmetria, questo doverle sempre prendere senza mai darle, alla lunga stanca e sarebbe sin troppo facile invitare i romani alla reazione violenta: la stupidità ha il pregio di essere semplice.
Io, invece, m’appello ad una virtù romana millenaria.
Al sacrosanto disincanto romano narrato da Libero Bigiaretti e citato qualche giorno fa da Andrea Di Consoli su ilMessaggero: «Ricordi il forestiero che nessuno è “importante” a Roma. Se uno crede di esserlo, o lo è al suo paese, e pretende di essere riconosciuto come tale a Roma, può capitargli di restare come Guglielmo II. Del quale si racconta che dopo aver ben mangiato, in stretto incognito, in una trattoria, volle poi farsi riconoscere dall’oste – un po’ per il gusto di sbalordirlo, un po’ per incoraggiarlo – come l’imperatore di Germania. L’oste lo guardò senza nessuna curiosità o meraviglia e, porgendogli la mano, gli disse semplicemente: “M’arillegro”».
Invito allora i fratelli romani e romanisti alla consapevolezza che gli ignoranti che ci ingiuriano passeranno, mentre Roma e la Roma resteranno in eterno lasciando le galline starnazzanti a cuocere nel loro brodo, che tanto le galline son state messe su questa terra per questo.
Ognuno viene al Mondo con l’orizzonte che si merita.
Il mio, come quello di ogni romano, alzandomi la mattina, è l’orizzonte del Palatino, del Colosseo, dei Fori e di San Pietro. Il loro è quello che è: abbiamo pietà.
E ai loro insulti, alle loro isteriche reazioni, rispondiamo, in nome dell’autodeterminismo dei Popoli e della libertà di linguaggio della quale loro sono i primi ad abusare, con un sonoro e plebeo: ma ‘sti cazzi!