mercoledì, Ottobre 02, 2024 Anno XXI


«C’è un’ape che se posa su un bottone de rosa: lo succhia e se ne va. Tutto sommato, la felicità è na piccola cosa.»
I versi del Trilussa riecheggiano nella mia mente all’indomani della vittoria di Bordeaux come un inno spontaneo alla semplicità. Perché, a parer mio, il segreto di questa vittoria è tutto in una parola: semplicità. L’istinto e la saggezza popolare suggeriscono ad un convalescente di camminare prima di correre e di mangiare un brodino prima di un’amatriciana. E lo stesso dovrebbe fare questa Roma così timida e convalescente: riprendere dalle cose semplici, da quelle che sa fare. Quella stessa Roma che domenica contro l’Atalanta, la scassatredici della mia infanzia, aveva ricominciato a raspare il campo, contro le rondinelle d’oltralpe è rimasta imbambolata per oltre un’ora. Trafitta dall’unico tiro in porta dei francesi ed incapace di prendere in mano la partita anche dopo essersi trovata in superiorità numerica. Il motivo di questa repentina involuzione è da ricercarsi, a parer mio, nell’ostinazione del tecnico di Certaldo nel complicare la vita a sé e a alla squadra inserendo spesso e volentieri uno o due giocatori fuori ruolo. Ieri è toccato ad Aquilani, uno dei migliori contro i bergamaschi, l’ingrato compito di vagare per il campo senza mai trovare la posizione, così la squadra, già impaurita di suo in questa sorta di spareggio/champions, in una di quelle partite della svolta che noi, per Storia e dna perdiamo sempre, ha iniziato balbettando e stava finendo peggio, smarrita come un bimbo che ha perso la mamma in un centro commerciale. Non voglio caricare oltre misura di responsabilità Luciano Spalletti, ma mi sembra evidente che il tecnico toscano ignori dall’inizio del campionato alcuni equilibri fondamentali nella preparazione delle partite, di cui pure spesso si è dimostrato maestro. Aquilani, DDR e Perrotta, ad esempio, non possono giocare insieme. Vucinic, per dirne un’altra, non è una prima punta. Sono convinto che col tempo Spalletti saprà trovare il modo di rendere funzionali anche certe scelte che ora mi appaiono azzardate. Col tempo. Non ora in cui la squadra ha bisogno di certezze. Di cose semplici, appunto. A chi, come me, è cresciuto ai tempi del catenaccio, delle marcature a uomo, dei ruoli predefiniti, per cui il laterale basso si chiamava terzino, quello alto ala e la prima punta centravanti, il calcio moderno e poliedrico resta un mistero. Si è detto, e si dirà ancora, che la Roma di ieri non meritava la vittoria e che forse senza l’espulsione di Henrique non avrebbe raggiunto neppure il pareggio. Può essere e non ne avremo mai la controprova. Quello che è certo, per me, è che è bastato fare due sostituzioni per cambiare il volto della gara. Rimettere, nell’immaginaria scacchiera, le pedine al loro posto per ritrovare misure e distanze. Quello che è certo è che la ritrovata sicurezza che viene dalle cose semplici ha spostato la paura in campo avverso e che gli stessi girondini che ci avevano surclassati sino a qualche minuto prima si sono scoperti loro piccoli e spaventati.
I gol che sono arrivati sono solo la naturale conseguenza di questo cambio tattico e psicologico. Così abbiamo visto Vucinic staccare di testa da posizione defilata, azzarderei da mezzala, una punizione di Baptista battuta di prima infilarsi nel sette, un cross al volo di un’ala, nella specie Taddei, sul quale il nostro centravanti, ancora Baptista, si è avventato con scelta da bomber. Abbiamo vinto facendo cose semplici ed antiche, mica entrando in porta con la palla. A ripensarci abbiamo fatto le stesse cose fatte contro l’Atalanta, con la difesa coperta e i gol venuti perché alla prima occasione utile abbiamo tirato, perché nel calcio se non tiri è difficile fare gol.
La mia ascendenza non ha origini contadine e forse anche per questo ho una naturale ammirazione per tutti quelli che dalla terra traggono il loro sostentamento e alla terra tributano sudore e fatica, con i ritmi scadenzati dal lunario di Frate Indovino.
Spalletti, invece, si vanta spesso di queste origini e, bontà sua, ha un’azienda agricola da fare invidia alla buonanima del Barone in una delle terre più belle d’Italia. Un’azienda che va avanti come un orologio. Lui questa saggezza popolare dovrebbe averla nel sangue. E allora la usi, la metta in pratica. Ci faccia assaggiare la ribollita o la fettunta invece di ostinarsi nella nouvelle cuisine, dalle forme e dai sapori sconvolti dall’estetica. Non sempre è tempo di caviale è stato scritto nel bel redazionale dopo la partita tutta sostanza con l’Atalanta e certe volte è mejo una sana romanella con la porchetta che un sontuoso bordeaux che ancora non sappiamo come abbinare.
Oltretutto ad ostinarsi nelle inutili sofisticazioni che lasciano la pancia vuota Spalletti rischierebbe comunque di ritrovarsi secondo dietro l’inarrivabile Mourinho. Ieri nella mediocrità di San Siro c’era probabilmente un signore in tribuna dall’aria soddisfatta: era Roberto Mancini.