venerdì, Settembre 27, 2024 Anno XXI


Di nuovo via Mohammed Mahmoud. Di nuovo downtown. Di nuovo quell’area del Cairo dove sono riuniti i palazzi del potere e, allo stesso tempo, i simboli della rivoluzione. Il ministero dell’interno e piazza Tahrir.

Le sedi dei diversi poteri, parlamento e ministeri, accanto alle strade in cui, per anni, si è riunita la gioventù del Cairo, tutto attorno non solo a piazza Tahrir, ma alla vecchia sede dell’American University, i caffè che si dispiegano sino a Bab el Louq, i negozietti di computer, lo struscio del centro città.

È ancora qui, in questo perimetro, che va in onda lo scontro tra rivoluzione e giunta militare. Stavolta, scatenata dalla tragedia dello stadio di Port Said e dai 73 morti causati dalla caccia al tifoso della squadra cairota dello Ahly scatenata dai fans della squadra di casa, il Masry. Da allora, la violenza è tornata nelle strade del Cairo e di Suez, in particolare. E lo scontro tra forze di polizia e i ‘diavoli’ dello Ahly diventa parte integrante della rivoluzione egiziana. Basta guardare i protagonisti del twitting egiziano, e si vedrà che sono gli stessi attivisti che in tutto questo anno hanno dato vita all’insurrezione e al suo dispiegarsi. Basta guardare chi c’è in strada, chi è stato ferito, compreso Ahmed Maher, del movimento 6 aprile.

Cosa vuol dire? Che l’attivismo, sin dall’inizio pacifico, ha superato la soglia, e si è spostato sulla violenza? Sarebbe veramente troppo semplicistico descrivere quello che sta succedendo in questo modo. È tutto molto più complicato, anche se – certo – i confini si fanno sempre più labili, man mano che aumenta anche la stretta dall’altra parte. Da parte della giunta militare. È come se quello che sta succedendo in questi giorni dia ragione a chi, da mesi, prevede prima o poi un bagno di sangue in Egitto, perché possa compiersi il cambio di regime. Io non sono ancora del tutto convinta che l’Egitto precipiterà in una deriva in cui la violenza possa essere ben più estesa di quanto sia in questi ultimi giorni, o nelle ultime settimane. Certo, però, la tragedia dello stadio di Port Said sta accelerando i tempi. In primis, i tempi delle elezioni presidenziali, che oramai in pochi prevedono per giugno. Persino Amr Moussa pensa che non si debbano fare dopo aprile, mentre il consiglio consultivo creato dalla stessa giunta militare parla di fine febbraio. Siamo, insomma, alla resa dei conti, in cui la strategia della giunta militare sembra molto più confusa di prima, se nella rete sono cadute anche le ong che ricevono finanziamenti da americani ed europei, che si sono ritrovate sotto indagine. La tragedia dei ‘diavoli’ dello Ahly accelera i tempi della politica, dunque. A dimostrazione che sbaglia chi pensa agli ultras egiziani (e non solo, anche tunisini) come un gruppo apolitico, oppure solo temporaneamente politico, oppure sfruttato dalla politica. Devo dire che ho trovato molto interessante, invece, la lettura che ne dà Ashraf el Sherif, che insegna all’American University del Cairo. Nella sua analisi pubblicata da Egypt Independent, Ashraf el Sherif contrappone il vecchio Egitto a tutto ciò che la rivoluzione ha fatto emergere, in primis, e poi ha lasciato libero.

[Fonte: Invisible Arabs]

Per Corederoma
Paolo Nasuto