mercoledì, Ottobre 02, 2024 Anno XXI


da Il Messaggero – lasignoraingiallorosso.it

Jérémy MenezChe-ccò». E’ la parola chiave di Jeremy Menez che capisce ma ancora non parla l’italiano. La più utile per entrare nel pianeta Roma, il passepartout per essere subito di casa. Che-ccò sta per Francesco Totti, con il quale ha legato subito. Fuori, abitano vicini, e tantissimo in campo. Il francesino dalla faccia svogliata e sempre con un filo di barba, finalmente si racconta, con l’aiuto di Elena Turra, ormai abituata alla sua rapidità anche nell’esprimersi. A Trigoria il tempo da lupi, fulmini e tuoni, non lo condiziona in allenamento e neanche dopo. Si presenta con una t-shirt, maniche corte, nera e firmata. Solo per andar via metterà un giubbotto. Si mangia le unghie, ma non è timido nè nervoso. E’ così. Niente gli fa cambiare espressione. Lo sguardo, curioso e freddo, è del giocatore. Di poker, ci dirà. Il bluff come la finta e l’azzardo come il dribbling. Per aggiudicarsi sempre la mano, con il gol. Suo e di altri.

Il primo sorriso dopo la sostituzione durante Roma-Bordeaux: come mai solo martedì sera si è mostrato felice? «La standing ovation del pubblico dell’Olimpico ha avuto un grande significato per me. La ritengo la mia consacrazione, perché con quell’applauso la gente ha voluto dirmi la cosa più bella. Che credeva in me. Penso di aver convinto i tifosi, di aver fatto vedere che qui ci posso stare e bene».
Sì, va bene. Ma perché non ride mai? «E’ il mio modo di essere. Sono riservato, ma quando sto con gli amici, scherzo e mi diverto. In privato, però».
In Francia, più che in Italia dove ancora non la conoscono bene, la descrivono come presuntuoso. Vero? «Mi sembra troppo. Di sicuro sono ambizioso. E anche tanto. Questo dovrebbe spiegare anche molti miei atteggiamenti. Senza, comunque, mancare di rispetto».
A proposito: gli slalom in campo, puntando l’avversario. Sfida tutti palla al piede come se volesse prendere in giro chi ha di fronte, anche in allenamento. Il suo obiettivo è quello di irridere gli altri?
«No. Ma questo è il mio gioco, mi piace forzare in ogni azione. Anche quando lavoro con i miei compagni. Sono storie che vengono anche quelle dalla Francia».
Dove però l’hanno definita il nuovo Zizou. Troppo? «E’ presto per questo paragone. Ho tanta strada da fare. In Francia tanti miei colleghi giovani si meritano di fare la carriera di Zidane, ma ancora non c’è uno come lui».
Tra l’altro, lei è più attaccante. Da che cosa nasce allora l’accostamento? «E’ così, io sono calciatore più offensivo. da quando sono bambino gioco davanti e non intendo cambiare. Ma da noi c’è la mania del paragone e subito si pensa a Zidane».
Iniziando avrebbe voluto somigliare più a Henry? «No. Guardavo Zizou. Il più grande da noi. Volevo stupire anch’io, come lui. Con caratteristiche diverse, però. Pure Henry è un big, ma io ero colpito da Zidane. Ognuno di noi ha un calcio, loro sono arrivati al top. Io devo lavorare tanto per raggiungere quei livelli. Da Menez, senza imitare nessuno».
A 15 anni la chiamò il Manchester United: perché disse no? «Mi consigliò papà Jean Marc, appassionato di calcio e giocatore dilettante. Non ero ancora pronto. Dovevo aspettare e fare esperienza in Francia, dove i giovani sono seguiti tanto e bene».
A 21 ha scelto la Roma: perché il sì all’Italia? «Perché mi piace rischiare. Preferisco una giocata difficile a una facile e così sono venuto qui. Per il mio modo di muovermi in campo, sarebbe stato più semplice il calcio inglese o spagnolo. In quei tornei un giocatore è più libero in campo. Mi hanno convinto Roma e Cufré, spiegandomi che gli esami veri si passano qui da voi. Se li superi, sei subito inserito nella lista di chi può fare questo mestiere in un grande club. Mi hanno pure detto che se fallisci puoi bruciarti. Ma, come ho detto, il rischio mi affascina. In ogni situazione».
Dal salotto di Montecarlo alla pressione di Roma: può fare un elenco di cose che l’hanno colpita, cambiando piazza? «La passione dei tifosi, il tatticismo e le botte. Qui il contatto è continuo. Colpi durissimi, anche senza palla».
Paura dei calci? «Chi? Io? Mai avuta, sin da bambino. E, magari non lo potete sapere, io sono me stesso pure in allenamento, quando non dico niente ai compagni se mi colpiscono duro. Con loro, con le loro entrate, mi preparo per le partite».
Quando si è presentato, il sospetto che la Roma avesse preso un giocatore fisicamente non integro. Infastidito? «No. Probabilmente qui non mi avevano visto giocare dopo l’operazione per la pubalgia. Ma a certe chiacchiere non do mai peso».
Adesso Spalletti la fa giocare: tutto a posto con lui? «Sì, il nostro colloquio è stato utilissimo. Non ho mai detto alla società di cedermi: in Francia hanno ampliato quello che era solo il mio stato d’animo. Di chi ha un’ambizione sfrenata. Volevo farmi conoscere. Io ho solo chiesto un incontro per capire se qui avrei avuto spazio, visto che negli ultimi due mesi avevo giocato poco. Se avrei dovuto aspettare ancora. L’allenatore è stato chiaro, mi ha spiegato che era solo una questione di pazienza e di lavoro. Pochi giorni dopo Verona, il gol al Chievo e il successo contro il Bordeaux. La storia cambia per me, vedrete altre reti».
Il vero problema, insomma, è solo la lingua: come intende risolverlo? «Ho promesso alla mia insegnante che studierò durante le feste, mi ha già dato alcuni esercizi. Ma ho sospeso le lezioni: tra viaggi e allenamenti, non avevo proprio tempo di dedicarmi all’italiano. Mi aiuta tanto Phil e anche altri. Però quello che c’è da capire lo so già, soprattutto in campo. So come comunicare».
Con Totti, tanto pallone e poche parole? «Occhi e gesti, con lui. Perché se parla, il suo è dialetto, un po’ come il mio. Lui, se serve, urla il mio nome, Jeremì. E io Che-ccò. Va bene così».
Siete così legati con il capitano? «Mi ha dato subito una mano. Da amico. Ho sentito che mi ha paragonato a Messi, pensate un po’. E con lui mi trovo bene, giochiamo a carte, pure in aereo. Vedo Mexes, Okaka, De Rossi, sto bene con tutti».
Comincia a conoscere questa città? «No. Non ho visto niente. Da tre mesi e mezzo, sempre lo stesso percorso: casa-Trigoria-casa, a parte quando vado a mangiar fuori. Sono riservato, non mi piace farmi vedere in giro. Spesso è qui la mia ragazza Melissa. Ho un fratello più grande, Kevin: sta in Francia, come i miei genitori, separati, Jean Marc e Pascal».
Hobby? «Playstation e soprattutto poker. E’ il mio gioco e non perché vengo da Montecarlo».
Dimenticavamo: il giocatore che in Italia l’ha impressionata di più? «Che-ccò. Sì, Che-ccò».